HANNO SCRITTO DI LUI
Lucio Cabutti
Gianfranco Schialvino
Giovanni Cordero
Paolo Levi
Angela Schiappapietre
Dario Salani
Raffaella Caruso
Silvana Nota
Siamo riusciti ad incontrare lo schivo Gianni Bergamin. Chi è ? Cosa fa? Non ha un indirizzo mail, non è sui social. Tutto pennello e colori ad olio. Lo potrete conoscere a Camo. Personalmente e attraverso i suoi paesaggi metropolitani.
Le poche notizie che siamo riusciti ad estorcergli:”Sono nato ad Adria (Ro) nel 1958. Vivo a Torino. Ho esposto in diverse rassegne artistiche. Ho iniziato a fine degl’anni 80 in spazi indipendenti. Poi sono andato in Slovenia. In Austria e alla Biennale di Venezia nel 2011”
La tua arte?
“lavoro su pittura e fotografia di magazzini, fabbriche abbandonate, piene di immondizie e detriti, cercando di creare un paesaggio alcune volte in decomposizione”
Mi piace il tuo concetto di profondità:
“E’ alla base della mia ricerca. Il mio percorso all’interno della profondita’ dell’opera, prende avvio dalle caverne immaginarie, dapprima create con tramature in rilievo e piu’ recentemente indagate piu’ in superficie con l’utilizzo dell’immagine, vista con un taglio particolare e attraverso l’elaborazione della fotografia”
Hai vinto recentemente un premio a Saluzzo Arte 2016. Dicci qualcosa:
La giuria ha detto che il mio lavoro è intriso di spiritualità che apre il sipario su uno scenario naturale dove nuvole e fumi conferiscono un alone di mistero a un universo che si interrompe, impervio, troppo presto, fornendo all’osservatore un frammentario indizio di questo luogo mai trovato. Un addio? Un passaggio veloce? Tutto è cupo, quasi malinconico.
Ti ci ritrovi?
Sì. Attraverso i colori restituisco la mia inquietudine.
Ci vediamo a Camo.
A Camo!!!
GIANNI BERGAMIN @ MCA di CAMO (CN)
intervista a cura di Claudio Lorenzoni
Grandi paesaggi urbani crescono come selve di cemento nei più recenti cicli di opere di Gianni Bergamin. La connessione fra gli edifici risponde infatti a una reazione a catena di ordine organico, più che a un criterio strettamente topografico. Come per una libertaria associazione di idee, questi tessuti urbanistici immaginari si avvalgono di citazioni di luoghi reali e riconoscibili, ma li assemblano secondo criteri fantastici ed informali. Le sue città sono decisamente virtuali, e il loro spazio ha la scioltezza di una apparizione. L’articolazione iperbolica dei luoghi, e la loro atmosfera e lo spirito e la suggestione emotiva che ne risultano inaugurano una singolare rivisitazione del vedutismo. I frammenti trapiantati nel dipinto, a incominciare dalla torinese piazza S. Carlo per approdare ad anonime angolazioni periferiche o a interminabili agglomerati megalopolitani assumono un significato diverso ed alieno nella loro piranesiana estetica combinatoriale.
Il loro confronto interattivo risulta in queste opere chiarificatore. La piazza che costituisce a metà di via Roma un “centro del centro” nella città, e la periferia, zone industriali comprese, si alternano così e si collegano in una moltiplicazione di vedute panoramiche e ampie, dove il motivo dominante costituito dalla configurazione della città come luogo dei luoghi, quartiere di quartieri, “ipercittà”. Alla virtualità di queste immagini totali, peraltro, corrisponde una concezione tutt’altro che fantasticamente virtuale. Questi quadri di Gianni bergamin inscenano infatti una sorta di “zapping” nella continuità urbana reale. E questo modo di navigare o dl volare nel labirinto di una Torino vera e insieme immaginabile si traduce in un effettivo (anche se non sempre identificabile) percorso ipertestuale, che riflette una forma di esperienza rilanciata attraverso gli influssi dell’informatica sull’esistenza quotidiana. Il fatto di vedere, pensare e sentire in termini di zapping costituisce adesso un modello culturale ricorrente che spazia dal costume di tutti i giorni alle espressioni della creatività e alle elaborazioni dell’arte.
Alla pratica dello zapping, vissuto come tecnica selettiva delle immagini e come percorso creativo, si affianca come strumento preliminare la macchina fotografica con l’oggettività e la velocità della sua memorizzazione visiva. Gianni Bergamin si avvale infatti della fotografia per registrare “en plein-air” gli ambienti o gli edifici della città che diventeranno poi, in forma di foto e di fotocopie, frammenti dal vivo delle composizioni realizzate in atelier. Quanto alle modalità del loro assemblaggio e delle loro trasformazioni in ulteriori vedute sintetiche dipinte, le premesse possono farsi risalire alle interazioni fra spazio e tempo innescate dal cubismo come dal futurismo e alle metamorfosi dada e surrealiste degli oggetti e degli stampati. La sintassi dell’avanguardia rientra però, nel caso dei paesaggi urbani esposti, in un alveo più naturale che sperimentale o provocatorio. La loro interconnessione ritrova una continuità ambientale accattivante, limpida, armonica.
Nell’organicità di questi assemblaggi di edifici entrano poi anche in gioco la naturalezza dell’atmosfera e gli spessori materici. il senso dell’atmosfera contribuisce non poco ad accrescerne la suggestione, caratterizzandosi di volta in volta come luminosità, trasparenza, solarità bruma, fondale cromaticamente astratto, nebbiosità inquinata, contrasto fra nubi e arrossamenti di alba o tramonto. Alla rappresentazione di zone industriali che trovano un ricorrente emblema nelle sequenze di ciminiere si alternano scenari di centri storici e citazioni desunte dall’immaginario di massa, come nel caso delle variazioni su una classica foto di i9arilyn J9onroe. Pochi alberi, molte piazze e spiazzi e strade e radure completano i panorami. Così Gianni 5ergarnin riflette sulla città nel fondale cosmico della natura e sulla città come natura e come artificio, segno greve dell’industria e segno lieve della storia. Nella più recente produzione del pittore la percezione della città diventa anche una forma di individuazione di sè e del proprio mondo. Lo spirito dei luoghi a Torino, dove Gianni Bergamin era giunto all’età di quattro anni dalla nativa Adria nel 1962, viene quindi identificato attraverso le immagini stesse dei luoghi. In altre stagioni della sua attività, a partire dalla sua prima mostra personale del I 988 alla “Cooperativa Arti Visive ‘78”, l’artista ha però sperimentato altre forme espressive più esplicitamente materiche e ambientali. Per questo anche I cieli dei suoi nuovi lavori risultano spesso aggettanti nei confronti delle vedute urbane. L’illusionismo ottico delle loro immagini viene così reso problematico dal confronto con la matericità e le giunture e i sentori di un latente bassorilievo deliberatamente evidenziati dall’autore. Il dipinto tende così a farsi valere come oggetto, e come significato materico e ambientale, oltre che come soggetto.
In questo senso le opere stesse, del resto, includono sovente intorno alle loro immagini un bordo anti-illusionistico, che come una sorta di riquadro di finestra o di passe-partout (anch’esso dipinto senza soluzione di continuità) accentua il concentrarsi dell’attenzione sulla veduta ma ne evidenzia insieme, e non di meno, il carattere metaforico nei confronti della scena raffigurata. Anche mediante questa configurazione del “quadro nel quadro” il significato dello zapping accresce la propria consapevolezza di costituire la stazione di un percorso, e di rimandare quindi ad altre stazioni e ad ulteriori percorsi, nell’arte come nella vita, al di là della singola immagine. Nei suoi lavori recentissimi Gianni 8ergamin si qualifica dunque come un interprete e un esponente puntuale della crescente interazione fra le tecniche “classiche” della pittura e il comune senso della realtà informatizzata. In primaria consonanza, quindi, con una visione dell’ambiente naturale e urbano più rispondente ai mutamenti in corso nell’Anno Zero del Ventunesimo Secolo.
Lucio Cabutti
La città dello zapping
critica di Lucio Cabutti
Gianni Bergamin parte dalla fotografia. Non dalla realtà in sé, dunque, ma da una sua particolare icona, selezionata e fissata a priori. È importante questa distinzione, perché il filtro tra il reale acquisito e quello rappresentato diventa doppio, denso, velato fino a confondere, a mutare dapprima impercettibilmente, infine drasticamente, il fine da raggiungere in un ideale viaggio dentro le cose.
Se l’opera di un artista che dà realtà ad un’immagine è una rappresentazione, questa deve essere riprodotta intenzionalmente, interpretata: le mere cose reali non rientrano nella sfera dell’arte (anche se c’è chi dà loro un titolo e ne muta il significato, considerandole ad arbitrio opera d’aite ed inserendole nel quadro istituzionale del sistema). L’artista esprimerà, attraverso la sua azione e pertanto nella sua opera, un sentimento ed un’emozione, un’ intenzione.
Ora, se la fotografia si può definire una rappresentazione, cioè un duplicato dell ’apparenza, ecco che Bergamin cerca la sua ispirazione in due differenti momenti :quello della scelta dell’inquadratura da fissare nella fotografia e quello successivo della sua elaborazione, esprimendo delle sensazioni intellettualistiche piuttosto che non emozionali, concettuali insomma, riflesse esse stesse. Sta qui l’esito delle sue composizioni, assai elaborate nella stesura che sovrappone strati di materia per la definizione finale dell’immagine ed accosta in serie visioni successive per la precisazione ultima del significato. È un “work in progress” che trova pace soltanto negli occhi e nella mente di chi guarda, quando il messaggio che l’insieme dei foto- grammi ricostruisce estraendolo dal “deposito” che gli viene offerto, scelto (è questo l’intervento che determina la presenza di un demiurgo capace di superare la mera rappresentazione del reale, in questo caso demandata all’apparecchio fotografico) dall’artista, è identificato ed accettato. La mimesi di Bergamin, per quanto siano le sue forme decisamente reali, è quindi decisamente distante dalla realtà, risultando apparenza di un’apparenza, e non rivendica alcuno status ontologico: ambisce invece al piacere della fantasia, al gusto dell’idealizzazione, all’effigie dell’indagine, all’elaborazione del simulacro. Due personalità che si completano, Gianni Bergamin e Marco Longo, nell’espressione artistica. L’emozione lirica, venata di quel tanto di romanticismo che la spruzza di fané, che la intride di melanconica dolcezza, di spleen; e, accanto, la costruzione di un problema, la cui comprensione e soluzione dà sensazione di agio e tranquillità. Impulso, quantunque controllato, e ragione, venata di deroghe. Calma accettata e voluttà raggiunta, sogno e apparizione, abbandono e riposo, impressione e percezione, sensualità e riflessione. Passione e volontà.
Non contrapposte, affatto coerenti, legate dal fervore della creazione.
Una sequenza di allegorie sufficientemente parallele da incastrarsi in un sentire ed esprimersi complementare ed esaustivo.
Gianfranco Schialvino
(marz.o 2007 - luglio 2008)